giovedì 23 febbraio 2012

Cartagena

Adesso siamo in un paesino a 10 km da Cartagena. Si chiama Boquilla, é sulla spiaggia, è abitato da pescatori neri è ben ventilato e non richiede aria condizionata. Le giornate procedono tranquille; sotto le palme Grace traduce, Ale va a comprare il pesce dalle reti dei pescatori o raccoglie vongole da mare. L'albergo dove stiamo ha una nuova gestione, una joint venture svizzero-colombiana dove Stephan si lamente perchè le cose non funzionano mentre la socia colombiana appare invece tranquilla. Nell'albergo convive uma piccola comunità con Leo, tecnico di acquiloni 39enne di Bogotà ora neo iscritto ad ingegneria; Jamalé fidanzata di Stephan studentessa di scienze della comunicazione, di Calì, maestra di salsa; Rodrigo tuttofare dell'albergo e un altro signore non ancora definito. È evidente che l'impresa fallirà molto presto ma per noi è un ottimo posto. Ci resteremo almeno una decinamdi giorni perchè è il luogomideale per lavorare e le traduzioni da fare non mancano.

domenica 12 febbraio 2012

Bogotà

Già sull'aereo, mentre abbandonavamo l'Amazzonia ci siamo resi conto che la rivista ufficiale della compagnia colombiana Copa aveva qualcosa di unico. Era la prima rivista di questo tipo semplicemente non leggibile. Normalmente si tratta di riviste semplici e ben fatte, belle foto, articoli chiari, grafica standard e patinata, molta pubblicità. La rivista di Copa no. Non si capisce dove un articolo inizi e dove finisca. La parte in spagnolo ora é a destra di quella in inglese, ora a sinistra; a volte sopra e a volte... ah eccola, la ritrovi tre pagine dopo inserita in un articolo diverso, ma non si tratta di un errore di impaginazione ma una scelta grafica che si ripete. Strano. In effetti avevamo già notato, nel parco centrale di Leticia, dove ci avevano accompagnati sette bambini biondi e neri, in triciclo, spiegandoci che al tramonto il parco é pieno di Lori verdi che avremmo potuto fotografare, avevamo già notato, dicevamo, una stranezza grafica. Il parco é dedicato alle popolazioni amazzoniche colombiane che sono presentate per mezzo di una statua realistica rappresentante un membro della nazione. Accanto alla statua, sulla pala di un remo di canoa, sono riportate le informazioni sulla popolazione. Solo che le scritte non procedono regolarmente da sinistra a destra e dall'alto in basso ma, per adattarsi alla forma di rombo arrotondato della pala del remo, salgono e scendono a 45 gradi creando un movimento a 'v' rovesciata che rende impossibile la lettura.
A Bogotà la domenica mattina il centro storico é chiuso al traffico e così ce ne siamo andati in giro tranquilli a scoprire la parte più antica e pittoresca della città. Ma anche qui la grafica si presenta curiosissima. Le lapidi di marmo che spiegano e ricordano fatti e personaggi salienti sono numerose come in ogni città con una Storia, ma a Bogotà sono troppo larghe, l'occhio non riesce a seguire la linea con facilità, perde il segno e si stanca. Tre indizi non sono una prova ma quando ci siamo trovati di fronte alla mappa della città, offerta ai turisti da una splendida mostra fotografica, organizzata dalla Municipalità non abbiamo più avuto dubbi. La grafica colombiana é disfunzionale. Bogotà ha sette milioni di abitanti e offrire ai turisti una mappa con tutte le strade di tutti i quartieri, con i nomi delle vie tutti riportati, é semplicemente senza senso.
Poi siamo entrati al Museo dell'indipendenza. É un museo tipico delle città sudamericane, dove si presentano i personaggi e gli eventi più significativi della liberazione dall'impero spagnolo e la nascita degli stati nazionali. Mappe, stampe, didascalie e quadri riassuntivi permettono al visitatore di farsi, in una divertente oretta, un'idea basilare della storia del Paese. Questo ovunque ma non in Colombia. Qui il museo inizia con una sala dedicata a spiegare perché il museo é come é ora e non come era 10 anni fa. Naturalmente per rendere più confuso il tutto vengono introdotte nozioni di museologia storica e di filosofia museale. Non capiamo niente ma passiamo oltre. Nella seconda sala, piccola buia e piena di gente, viviamo l'apoteosi del multimediale. Delle grosse stampe d'epoca dei personaggi storici sono animate per rendere più realistico il parlare del personaggio. Chi siano i personaggi non viene indicato, sono padri della Patria e parlano e noi li stiamo ad ascoltare. Non é facilissimo perché parlano tutti insieme e la stanza é piccola ma noi ci proviamo. In genere sono giuristi e ripetono alcuni brani significativi dei loro scritti di filosofia del diritto, una palla enorme!!! e soprattutto di nessuna apparente utilità per la comprensione della storia colombiana. La stanza successiva ci mostra la statua di due persone che si prendono a pugni e a fianco, in una teca, un pezzo di vaso di fiori rotto in ceramica bianca colorata. Non capiamo a cosa rimandino questi oggetti? Niente paura la sala successiva con un intrigante gioco di filmati sulle pareti, propone un surrealistico dibattito stile porta a porta, a volume altissimo, tra storici, psicanalisti e passanti sul significato e il metasignificato del vaso di fiori rotto (???). Per finire siccome l'indipendenza, concetto cui é dedicato il museo, é un valore non definibile una volta per sempre, i visitatori sono invitati a scrivere su un tatzebao la loro personale concezione di indipendenza. Usciamo inorriditi e frastornati. Della storia colombiana non sappiamo nulla più di quanto non sapessimo quando siamo entrati, eccetto forse che a metà degli anni 80, 35 guerriglieri del M19 hanno fatto irruzione armati nel palazzo di giustizia di Bogotá e l'esercito li ha cacciati con i carri armati. Filmato e didascalia in questo caso erano chiari. Il mistero del surrealismo casinaro, dell'incapacità di chiarezza che sembra innervare il Paese verrà fortunatamente svelato al museo successivo. Si tratta del museo de oro. Ci andiamo dopo il caffè perché ce l'ha consigliato la cuoca dell'albergo e dal titolo sembra facile. Ci saranno alcuni pezzi d'oro... Alcuni? Sono migliaia, scordatevi il tesoro di Agamennone, il museo Egizio e il Topkapi. Qui la quantità di pezzi è innumerevole perché gli altrettanto innumerevoli popoli della Colombia pre ispanica, essendo privi di necessità commerciali, ma fornitissimi di oro che si trovava senza difficoltà nei fiumi, non avevano nulla di meglio da fare che costruire statuine, oggetti di culto, corone, bracciali, pettorali, portagenitali ecc in oro, argento, platino e relative leghe. Erano bravissimi artigiani e a quanto sembra ottimi sciamani, grandi conoscitori di erbe e viaggiatori nel tempo e nello spazio, esploratori delle dimensioni psichiche e dei regni animali e vegetali. Grandi equilibristi della mente e conoscitori dei suoi poteri. Ecco cosa sembra la Colombia, un paese di invasati, squilibrati, felici surrealisti, impreparati alla pratica ma attratti da dimensioni occulte e da stati paranormali. Ecco spiegato il segreto di Uribe, il presidentissimo di destra che governa con grande consenso il Paese dal 92. In un Paese senza senso pratico dove ognuno, blaterando principi incomprensibili prendeva le armi e con i precedenti Presidenti, che attratti dalla confusione ciarliera cercava il dialogo con gli insorgenti Uribe ha detto semplicemente basta, esiste lo Stato (oooh) esiste il potere (aaah) e adesso non si deve più sparare (uuuh). Un successone. Certamente una scuola di grafica che spiegasse l'utilità della chiarezza e della semplicità riscuoterebbe consensi insperati in questo Paese di confusi surrealisti, sempre pronti a spiegare, come tanti sciamani, le ragioni profonde, le motivazioni preliminari, i valori fondamentali, gli istituti basici di tutto senza mai dire nulla di pratico e concreto. Ma ora é così. E sembra divertente.

venerdì 10 febbraio 2012

Leticia

Leticia é un punto geografico al vertice di un triangolo di giungla appartenente alla Colombia per una simpatica interferenza americana (nel senso degli Stati Uniti). Mentre il boom del caucciù stava lentamente terminando, ai primi del 900, riconsegnando la foresta alla sua millenaria tranquillità, in un Hotel di New York di fronte a Central Park, l'Astoria, Mr J.P. Morgan, colto e ricchissimo banchiere, insieme a pochi altri signori decise che:
si sarebbe scavato un canale nell'istmo di Panama per consentire il collegamento marittimo tra Atlantico e Pacifico evitando la circumnavigazione del Sudamerica;
il territorio del canale di Panama, fino ad allora parte della Repubblica della Colombia, si sarebbe costituito come Stato a sé sotto il controllo degli Stati Uniti d'America;
la Colombia, come indennizzo per la perdita territoriale, avrebbe acquisito il triangolo amazzonico e lo sbocco sul Rio delle Amazzoni.
E il Peru, cui apparteneva il triangolo amazzonico con l'attuale Leticia? Beh si scoprì qualche anno dopo, quando il Brasile si rese conto che sul rio delle Amazzoni ora navigavano anche bandiere colombiane e denunciò il fatto internazionalmente, che il Presidente della Repubblica del Peru e il Ministro degli affari esteri che avevano, all'insaputa del Parlamento, firmato la cessione territoriale, avevano anche, nel contempo sviluppato dei grossissimi conti in banca spiegabili solo con versamenti in dollari del banchiere J.P. Morgan colto mecenate che morì a Roma nel 1909 non senza avere devotamente contribuito alle finanze della Chiesa Episcopale di cui fu sempre membro eminente. Cosa interessasse alla Colombia l'acquisizione di Leticia, distante migliaia di km dalla Colombia interna e ancora oggi priva di un collegamento stradale con essa non si capisce, o meglio si capisce solo dopo qualche giorno di surrealistica vita Colombiana.
Per noi Leticia rappresenta un autentico shock culturale: é infatti una cittadina normale, con le strade asfaltate sempre, con le case sempre intonacate, la gente sempre con le scarpe e i vestiti sempre senza buchi, sbrechi e macchie; dopo 6 mesi di Amazzonia e Ande la meraviglia é notevole e così il giorno dopo il nostro arrivo abbiamo preso l'aereo e scavalcando l'equatore siamo andati a Bogotà.

giovedì 9 febbraio 2012

Verso Leticia

Con la veloce e poderosa motonave Tuky primero partiamo all'imbrunire dal porto Masusa di Iquitos. E' un viaggio inaugurale per la nave, abitualmente impegnata su una rotta differente e l'equipaggio, giovanissimo, é piuttosto eccitato. I passeggeri non sono molti e nemmeno le merci caricate; per l'armatore il viaggio ha più che altro una funzione promozionale. Come vicino di camera abbiamo Xavier professore Limeño di storia e geografia che sarà una fucina continua di informazioni e aneddoti sul Peru che ci apprestiamo a lasciare dopo 4 mesi. A bordo i gringos sono abbastanza numerosi, c'é Gianni, curandero sciamanico di Viareggio, Barth Londinese ex studente SOAS in viaggio con Jeremia sudafricano. Una pacioccona di 18 anni di Heidelberg che stava anche sulla nave da Yurimaguas e per finire un paio di ragazzi di Città del Capo. La crociera anche stavolta si rivela interessantissima. Ci svegliamo all'alba e oltre alla luna piena che sta tramontando a nord ovest il cielo, stranamente privo di nuvole, ci offre una stupenda alba sul Rio. I primi villaggi che incontriamo vengono svegliati dall'arrivo inaspettato della nave che annuncia l'inizio del servizio regolare con il lancio dal ponte di splenditi e apprezzatissimi calendari. Verso le 9 attracchiamo a Pevas, preceduti dai delfini rosa in parata. La cittadina é capoluogo di dipartimento e sembra bellissima sopra la collina. Peccato che per paura di strafare abbiamo deciso di non fermarci perché due giorni qui sarebbero stati veramente notevoli. Ripartiamo; questa parte del fiume é decisamente più popolata di quella più a monte; i villaggi sono numerosi e anche le casette sparse e sperdute sembrano essere più frequenti. A metà giornata registriamo l'evento clou: sale a bordo un ganadero, un mandriano, con le phisique du role, stivali di gomma, canotta bianca, barba di due giorni e corpo ossuto. Parla col comandante e dopo poco siamo a riva. Si tratta di caricare a bordo un torello (di razza indiana, ci spiega Xavier che é aggiornato sulle innovazioni bovine in Amazonia) di mezza tonnellata che però spaventatissimo non ne vuole sapere e tira e salta in ogni modo. L'equipaggio tira con forza ma ad ogni salto del torello cresce la paura insieme alle urla del pubblico entusiasta appollaiato sui ponti più alti. Il ganadero strizza la coda la toro nella speranza di farlo salire ma questo non ne vuole sapere. Tira, salta, strizza, scappa alla fina lo issano in plancia dove assistiamo per qualche istante ad una corrida di Pamplona solo che il giovane equipaggio del Tuky non ha alcuna dimestichezza con la corride e scappa spaventato tra le lance della nave. Alla fine interviene il grasso e autorevole comandante che rivela di non essere tale per niente e riporta la situazione sotto controllo assicurando il torello ad una cima e questa al cancello della stiva. Scarichiamo il torello, le vacche e i vitelli di bordo a valle di San Luis (l'isola dei lebbrosi dei diari della motocicletta del Che) e anche qui non senza fatica. Per evitare rotture degli arti le bestie vengono gettate direttamente nel fiume e finalmente abbiamo la prova che le mucche sanno nuotare. Per il resto il viaggio procede in modo ordinario tra i racconti dei viaggiatori (il liutaio di Lima, il fratello di chi ha passato tre volte il confine Mex Usa da clandestino, Sendero Luminoso negli anni 80 ecc.), estasi naturalistiche e grida di uccelli e scimmie dalla riva. Arriviamo a Santa Rosa dopo 36 ore in una nebbia tropicale che il sole scioglierà definitivamente solo verso le nove.

mercoledì 8 febbraio 2012

Iquitos

Iquitos ha più facce. C'é il porto di Masusa dove le navi (grosse chiatte in realtà) approdano direttamente sul fango facendosi largo tra le altre a colpi di lamiera. Le navi sono ammaccatissime ma questo è lo stile dei comandanti amazzonici. Poi c'é il centro con i resti dei fasti del caucciù. Palazzi belle epoque, bar in mogano e stucchi decaduti.
Poi c'é Belen, il quartiere sull'acqua che farebbe la sua figura in un documentario sulla lebbra negli slums indiani. E poi c'é il resto che é malmesso quanto Belen ma essendo più distante dal centro non ha turisti voyeristi anche se ci vivono 500 mila persone. Poi ci sono le strade sorprendentemente piene di tricicli a motore montati nello stabilimento Honda fuori città. Ci sono anche i parchi dove il sabato e la domenica le famiglie trascorrono il week end facendo bagni controllati nelle lagune e poi, intorno, la foresta amazzonica con i suoi boa e anaconde, i suoi coccodrilli, le scimmie, i pappagalli, i giaguari, i puma, gli alberi giganti ecc. Ci sono le comunità native che hanno anche il loro quotidiano (la region) e ci sono le comunità gringhe anch'esse col loro periodico (Iquitos news). Noi ci siamo visitati un po' tutto andandocene in giro per 5 giorni e stasera, con il Tuky salpiamo per Santa Rosa, la città di confine con la Colombia.

mercoledì 1 febbraio 2012

Dunque l'inferno può essere la fenemonologia del paradiso

Salpiamo verso le sei di sera dal porto di Yurimaguas con il Gilmer IV. Come vicino di stanza ci ritroviamo un sosia di Jack Nicholson (che avevamo già incontrato a Kuelap e che in realtà é un prof porteño [di Bueno Aires] di economia). La nave é pienissima di amache stese, la nostra cabina non é male e la navigazione appare tranquilla non si sentono vibrazioni e il rumore del motore é praticamente inesistente. Non fa caldo, spazzato via da un provvidenziale acquazzone dopo due giorni asciutti e senza nubi. Dormiamo tranquilli e ci alziamo alle cinque con la prima luce. La nave si sveglia e lentamente inizia a carburare. Il frocetto della cucina ci porta la colazione. Jack Nicholson, con uno scalda acqua elettrico, ci aiuta a preparare il caffè; la vita si anima. Poco alla volta capiamo cosa succede: quando dalla riva qualcuno sventola una camicia, la lancia di bordo si stacca dalla nave e va a recuperare i nuovi passeggeri da una capanna a riva, oppure li scarica e la nave manco rallenta. Ad un certo punto attracchiamo. Quelli di San Luis hanno 40 tonnellate di mais da portare a Iquitos. in un'oretta i ragazzi del villaggio caricano i 600 sacchi da 40 kg sul ponte più basso della nave e si riparte. Siamo esterrefatti, noi passeggeri siamo turisti, pochissimi i gringos, 4 o 5, ma pur essendo peruviani non sappiamo nulla della vita della selva. Veniamo dalla città o dalla montagna, siamo impiegati e insegnanti in vacanza e i villaggi di legno e paglia sulla riva del fiume sono una autentica novità per tutti. Ma sicuramente la peruvianità ci ha aiutato a sistemarci in duecento appesi ad un amaca senza gridare, sporcare, litigare, fare casino. Sulla nave é evidentissimo che regna un ordine disciplinato e sereno inimmaginabile altrove. Il numero di bambini é notevole ma nessuna confusione. Le fermate ai villaggi (pittoreschi, spesso parzialmente inondati sotto le palafitte ma eleganti nella loro urbanistica indigena) sono frequenti. I locali salgono a bordo per vendere frutti dai nomi stranissimi e dimenticati dopo 10 minuti (sapolo, macamos, taperiba), pappagallini colorati detti lori, pesci cotti o crudi, polpette di banana verde, uova e pesce. Durante le fermate i ragazzi caricano il ponte basso di sacchi di aguitas, grappoli di platanos e chissà cos'altro. Intanto siccome é carnevale e ogni scherzo vale, i ragazzini del villaggio tirano sui passeggeri della nave palloncini pieni d'acqua. Quando si riparte le canoe locali tornano lentamente alle capanne, accompagnate dai delfini d'acqua dolce, numerosi sopratutto nei porticcioli alle confluenze dei fiumi mentre noi scivoliamo lontani. Ma poco dopo un nuovo villaggio, una nuova richiesta di attracco e si ricomincia. Alle 11, quando abbiamo assaggiato di tutto e siamo sazi e soddisfatti, il rio Huallaga, su cui stiamo navigando, largo quanto il Po', si butta nel Rio Marañon e diventiamo immensi, più del Mississippi a New Orleans, più di quanto si possa immaginare. Sul ponte, sempre più carico di frutti della selva in marcia verso il mercato di Iquitos, continua a fervere l'attività, perché bisogna sistemare meglio i sacchi, ricoprirli coi teli perché potrebbe piovere... Anzi piove, pioviggina ma non ci distrae, noi passeggeri, dal nostro daffare. Intanto dobbiamo capire dove siamo, come si chiama il fiume che stiamo incrociando, se sia vera la diceria che arriva fino all'Ecuador. Poi dobbiamo conoscerci, sapere da dove veniamo, cosa facciamo. Dobbiamo stare dietro ai bambini che ormai hanno preso coraggio e saltano per tutta la nave anche eccitati dai loro coetanei dei villaggi che si rotolano nel fango, si tuffano nel fiume, giocano in canoa e... ci tirano palloncini pieni d'acqua. Dobbiamo organizzarci per rispondere al fuoco. Per un po' si incarica di dirigere l'offensiva un ragazzo argentino con curiose similitudini col Che, (entrambi di Rosario ed entrambi medici) ma un colpo sbagliato lo porta ad annaffiare una ragazzina turista di 8 anni che si ribella, lo prende a calci e pone fine alla sua sgangherata leadership. Il frocetto di cucina ci porta il pranzo, il fiume scorre, il Gilmer IV scivola, il ponte si carica, il sole gira e naturalmente, come non potrebbe essere altrimenti in questo idillio, i ragazzi si innamorano e si appartano sui ponti più alti. Gli adulti si chiedono a vicenda come potranno mai dimenticare un'esperienza simile. Viene la sera, crepuscolo da cartolina, ci si saluta per la notte. Siamo a metà del viaggio ma siamo gonfi di felicità come fiumi amazzonici in piena alla stagione delle piogge. Sembrava l'inferno ma era un paradiso.